La Great Resignation in Italia
Tempo di lettura: 2 minutiDimettersi o non dimettersi?
Si continua ancora ampiamente a parlare in Italia di quel fenomeno post-covid chiamato negli USA Great Resignation, anche se si pensa che il fenomeno avesse già avuto la una grande espansione ancor prima dell’inizio della pandemia e che questa sia stata solo un motore che ha portato, in seguito, alla sua diffusione.
Il burnout
Queste grandi dimissioni stanno continuando a coinvolgere un gran numero di lavoratori dipendenti che decidono di lasciare il posto di lavoro a tempo indeterminato, soprattutto a causa del burnout, una sindrome derivante da stress cronico associato al contesto lavorativo; uno stress che il lavoratore non riesce a fronteggiare e gestire. Il burnout comporta, nel lavoratore, la comparsa di una serie di sintomi psicofisici, come la sensazione di esaurimento delle energie fisiche ed emotive, la sensazione di non avere strategie cognitive e comportamentali adatte a fronteggiare le richieste provenienti dall’ambiente lavorativo e quindi declino nelle prestazioni professionali. Tale sindrome, dunque, deriva da una risposta individuale a una situazione professionale che viene percepita dal lavoratore come eccessivamente stressante.
Perché cambiare?
Dopo gli Stati Uniti, anche l’Europa ha iniziato a registrare un’alta percentuale di dimissioni, soprattutto per quanto riguarda i più giovani – dai 26 ai 35 anni – che cercano opportunità più vicine alle proprie attitudini e competenze; senza mettere da parte il ritorno quotidiano in ufficio, che ha creato in alcuni una vera e proprio “sofferenza” psicologica. Pertanto, probabilmente è solo arrivato il momento di pensare più a sé stessi e alla propria salute mentale e fisica. Di sicuro è una conseguenza necessaria dopo gli anni di pandemia che ci siamo ritrovati a vivere e a sostenere, che ci stanno facendo riflettere su quali siano realmente le cose importanti e necessarie, ma che ci hanno anche messo di fronte ai nostri limiti, portandoci a prendere decisioni drastiche e repentine, considerato che molte vite sono cambiate nel corso degli ultimi due anni e altrettante hanno preso decisioni improntate al cambiamento. Si decide di cambiare anche senza un vero e proprio motivo e, il più delle volte, a causa delle relazioni all’interno dell’ambiente lavorativo e del benessere psico-fisico del lavoratore in questione o semplicemente per quel desiderio di cambiamento che spinge verso una svolta radicale o un miglior equilibrio tra la vita lavorativa – anche attraverso condizioni economiche migliori – e quella privata.
Le aziende coinvolte sono almeno il 60% e riguardano principalmente i campi dell’informatica e del digitale; di produzione, vendita e marketing. Ed è proprio in questi campi che i datori di lavoro dovrebbe dare una maggiore opportunità di crescita per i loro dipendenti e favorire quelle flessioni lavorative che permettano al dipendente di sincronizzare il lavoro con la vita privata.
C’è un lato positivo?
È stato verificato che soprattutto nel Nord Italia, la Great Resignation è stata seguita immediatamente da un incremento dei processi di selezione e ricollocazione, il più delle volte sempre all’interno dello stesso settore di provenienza del lavoratore. Il recente incremento delle dimissioni si è quindi accompagnato a una parallela dinamica del tasso di ricollocazione, segnalando un’accresciuta mobilità dei lavoratori dipendenti.
Marianna Zito